martedì 4 luglio 2017

Di mutandine scucite e amicizie dimenticate...


Chissà se fa dimagrire anche tirar fuori quei ricordi che sono rimasti lì, sedimentati per anni e anni senza che mai una volta ci sia stato il bisogno di andarli a riesumare...
Io ci provo.
Tutto mi è tornato alla mente l'altro giorno, quando per caso ho visto passare una ragazza che non incontravo da una ventina d'anni (facciamo anche una venticinquina d'anni)...
Avete presente quelle persone che entrano un po' per caso nella tua vita, passano silenziosamente e se ne vanno, così come sono venute, senza lasciare la benché minima traccia?
O almeno ce lo crediamo.
Perché il nostro cervello è più infallibile delle telecamere di sorveglianza del benzinaio all'angolo e archivia meticolosamente ogni più piccolo istante che ci è passato addosso, o anche solo accanto...
Poi, però, c'è l'archivista: quello che, in stile Inside Out, dovrebbe essere capace di catalogare i ricordi come si deve.
Il mio col cavolo...
Si chiama Vattel di nome, Appesca di cognome, stipa ricordi in bell'ordine da decenni, ma poi si dimentica puntualmente dove diamine li ha ficcati e quando gli chiedo di tirarmi fuori una cosa in particolare, figurati se ci riesce... Si perde nei meandri sinaptici a frugare cassetti neuronali per giorni, fino a che la cosa che gli ho chiesto o non mi serve più, o nella migliore delle ipotesi, trova qualcosa di simile per assonanza o per colore e me la propina con candida innocenza e spropositato ritardo.
Ma l'altro giorno no.
L'altro giorno Vattel si è dimostrato di un'efficienza sospetta (secondo me tutta fortuna, del tipo che si trovava per caso di fianco al cassetto giusto e s'è detto "mò fingo di essere organizzato e faccio il figo").
Vedo questa tizia e mi si apre istantaneamente nella testa il suo fascicolo con tanto di documentazione audio/video: Deborah a dieci anni, matassa di capelli crespi biondino rossicci, pelle color biancolatte lentigginosa, voce roca e occhi gialli. Abbiamo gironzolato insieme un'estate di tanti anni fa e ci siamo dette poco o niente perché lei aveva uno strano tic che, mentre parlava, le faceva strizzare convulsamente un occhio e le stortava la bocca in una smorfia scomposta verso destra. Poi c'è stata quell'unica volta in cui mi ha chiesto (come fanno le femminucce vere) se l'accompagnavo in bagno che doveva fare pipì.
Io, che femminuccia vera non lo sono mai stata, mi son stranita un tantino, però poi mi era sembrato brutto dire di no e così l'avevo accompagnata.
Una volta entrati nello squallido bagnetto claustrofobico del caffé della piazzetta, lei si era trata giù i pantaloni e il mio occhio era cascato involontariamente sulle sue mutandine bianche a pois rosa che però, a dispetto della vezzosità della stoffa, esibivano due o tre vistosissimi buchi che lei (notando che avevo notato) giustificò dicendo, "Tanto le mutandine stanno sotto".
Non so descrivere esattamente quello che pensai in quell'istante. Fu un misto tra il disagio del "maddai, mica me le farebbe mettere mia madre delle mutandine conciate così" e lo stupore di un "cavolo, però è vero, son sotto e non si vedono, quindi chissenefrega".
Poi, uscimmo da quel bagno e mi dimenticai di tutto.
Mi dimenticai del disagio, dello stupore, delle mutandine bucate e, poco dopo, mi dimenticai ufficialmente anche di Deborah. E suppongo che lei si dimenticò ufficialmente di me perché, quando l'ho incrociata per strada l'altro giorno, non ha nemmeno alzato lo sguardo e ha tirato dritta senza batter ciglio.
A pensarci bene, esattamente come ho fatto io...

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